Posta, correva l'anno 1984.
Io frequentavo il primo anno delle medie e, provenendo
dall'ambiente ovattato delle elementari di Cittareale, mi affacciavo su un
mondo nuovo e "cattivo" (in senso buono) in cui imperversavano i
"nonni" di Bacugno e di Sigillo.
La scuola si trovava nell'attuale edificio comunale ed il nostro punto di ritrovo, la mattina, in attesa del suono della campanella, era il mitico bar "di Celentano", allora situato in fondo alla Piazza degli Eroi.
Erano giornate "avventurose" nelle quali ti poteva capitare che l'autista dello scuolabus ti obbligava a scendere, lasciandoti a piedi per strada, perché stavi "facendo confusione", o che il preside Cattani ti prendeva a schiaffi per aver sbagliato una semplicissima somma di frazioni!
Andavamo ad acquistare quaderni, penne e fogli di protocollo
nelle piccole botteghe di Renata e del "maestro di musica". Le rare
volte che le nostre madri non facevano in tempo a prepararci il panino per la
ricreazione, con somma felicità, andavamo a comprare la pizza col salame
ungherese nell'"Alimentari" di Luigina.
A volte facevamo delle incursioni nel laghetto situato dove oggi sorge il palazzetto, per pescare con le mani i pesci rossi. I sigillari, Riccardo, Giulio e Quinto avevano un'abilità insuperabile e poteva capitare che venissero a scuola attrezzati di stivali di gomma nera, propinando improbabili giustificazioni al professore della prima ora.
Posta era, nella mia mente di bambino, la sensazione di decadentismo suscitata dal suono dell'orologio a pendolo e dai quadri (imitazione) di Renoir dello studio del dottor D'Alessandro. Era il terrore delle interminabili e silenziose attese nello studio del dottor Pepe, insieme alla speranza di guadagnare un ghiacciolo al termine dell'operazione di cura. Era la tranquillità e l'odore di tessuti della bottega di Vittorio dove mia madre, dopo aver effettuato gli acquisti, si fermava in interminabili chiacchierate.
Ma, soprattutto, era il fascino imperioso dell'impavido soldato di bronzo del monumento ai Caduti!
Il giorno sacro della settimana era il martedì: storicamente
(e non sono mai riuscito a capirne il motivo) in questo giorno venivano
collocate le due ore settimanali di educazione fisica che, sistematicamente, si
concretizzavano, per noi ragazzi, nell'agognata partita di calcio nel campetto
in erba aldilà del fiume.
Epiche battaglie portate avanti ad oltranza in cui
gli insegnanti avevano il loro bel da fare per conciliare gli animi e,
soprattutto, per riportarci a scuola al termine dell'orario.
Il prato a zolle con le porte di legno grezzo e le reti
fatiscenti erano teatro delle mitiche sgroppate, con tanto di conclusione dalla
distanza, di "Boccio", o dei dribbling insistìti di Micarelli, che
fieramente ostentava la sua borsa da calcio della neo costituita compagine
calcistica dell'"Alto Velino".
O del compianto Amedeo che ai
campionati studenteschi minacciava di non partecipare se non avesse avuto la
maglia numero 5 di Falcao.
Era un ambiente fatto di "sano nonnismo" nel quale
avevo faticosamente guadagnato un po' di rispetto, nonostante il carattere
timido, per la mia discreta abilità nel gioco del calcio, sommo metro di
valutazione e di definizione delle gerarchie. Al massimo poteva capitare che il
Tonino di Sigillo di turno ti dava una banconota da 500 lire ordinando:
<<Vamme a comprà 'na Girella!>>.
Un ambiente dominato dalla
sconfinata fede Laziale della quasi totalità dei Bacugnesi, Postaroli e
Sigillari in cui io, da solo, orgogliosamente ostentavo il mio
"credo" interista.
Era la Lazio dei mitici Giordano e Manfredonia: ricordo
perfettamente di un'ovazione della classe, durante la lezione di storia, non
appena il professor Crescenzi pronunciò il nome di Giordano Bruno, arso al rogo
dall'Inquisizione.
Così come nitido è il ricordo di quel lunedì mattina del
1984, che seguiva la prima domenica di campionato in cui la Lazio era stata
sconfitta in casa per 1 a 0 dalla Fiorentina di Socrates e di
"Picchio" De Sisti.
Al termine di una partita giocata gagliardamente
dai biancoazzurri, con molte occasioni sprecate, arrivò al 71', la beffa ad
opera di Eraldo Pecci, che, con un missile dai trentacinque metri, di sinistro (il
piede non suo!), mise la palla sotto il "sette", alle spalle di un
costernato Orsi.
Quel lunedì, per tutto il viaggio sul pulmino, avevo
pregustato il momento dello sfottò verso i miei compagni, amici laziali.
Arrivati a Posta, entrai nel bar di Celentano, mi diressi spedito nella
saletta, dove Micarelli e "il Roscio" di Bacugno, Tonino, Riccardo e
Giulietto di Sigillo erano seduti in assoluto silenzio, con facce da funerale,
a smaltire la delusione dell'ingiusta sconfitta.
A quella visione non riuscii a
trattenermi dal gridare un ironico, sfrontato e coraggiosissimo <<GRANDE
LAZIO!>>.
Da quel momento in poi il ricordo sfuma nell'immagine delle
cinque figure che si alzano all'unisono riversandomi addosso un fiume di calci,
pugni e insulti, lasciandomi dolorante, ma soddisfatto, per tutto il resto
della giornata!
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